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Per Aspera Ad Veritatem n.23
Scenari futuri della globalizzazione

Giuseppe SACCO


« L'uomo del futuro sarà colui
che avrà la memoria più lunga »
F. Nietzsche



Tracciare uno scenario sul futuro di un fenomeno assai complesso come la globalizzazione a un orizzonte temporale di più anni implica la tacita accettazione dell'idea che i fattori che lo hanno determinato abbiano carattere duraturo, e che il fenomeno stesso sia destinato a continuare in avvenire più o meno con le stesse caratteristiche che esso presenta attualmente, ed a plasmare domani la realtà internazionale se non proprio in maniera analoga a come ciò avviene oggi, almeno in maniera altrettanto determinante. Uno scenario sul futuro della globalizzazione sconta perciò l'assunto di base che i grandi flussi che determinano questo fenomeno possano essere considerati come elementi stabili del periodo di tempo per il quale è possibile fare previsioni.
Tale periodo - il “futuro prevedibile” - varia, naturalmente, a seconda dei fenomeni esaminati. Esso è, per esempio, di vari decenni per i fenomeni demografici, ma solo di qualche anno per quelli economici, e dell'ordine dei mesi per quelli politici. Nel caso della globalizzazione, fenomeno a carattere prevalentemente socio-economico - e che consiste in un violento accrescimento delle reciproche interferenze tra ciò che accade in società ed attività diverse - l'estensione del “futuro prevedibile” non va oltre gli 8-13 anni.
Guardando all'indietro è facile peraltro vedere che l'epoca della globalizzazione ha già coperto un arco temporale più o meno della stessa lunghezza. Essa si è estesa sull'ultimo quindicennio del ventesimo secolo, ed ha coinciso con gli anni del post-comunismo, in cui si sono spontaneamente e potentemente sviluppati alcuni flussi che erano in precedenza impediti o fortemente condizionati da esigenze politiche legate alla Guerra Fredda. Si tratta soprattutto di flussi trans-frontiera, dalla cui evoluzione dipendono gli scenari della globalizzazione, e che possiamo raccogliere in quattro categorie:
- flussi informativi (trasferimento di tecnologie o diffusione di media come Internet, in precedenza coperto dal segreto militare),
- flussi di investimento (cioè della libera localizzazione di attività produttive, e soprattutto manifatturiere, in paesi a basso costo del lavoro, dove in precedenza l'impresa estera era sempre esposta al rischio della nazionalizzazione),
- flussi accresciuti di merci (essendo alcuni paesi del terzo mondo diventati grandi esportatori di prodotti manifatturati),
- flussi di persone (ma solo in misura nettamente inferiore agli altri flussi per la crescente resistenza delle società più ricche ad accogliere immigrati provenienti da altri continenti e da altre culture).
Questo stretto collegamento tra il fenomeno della globalizzazione e le condizioni del post Guerra Fredda fa sì che l'assunto di stabilità futura relativo ai flussi che determinano la cosiddetta globalizzazione non sia indiscutibile. Le condizioni che hanno reso possibile i flussi in questione sono state strettamente legate ad una fase storica, oggi terminata, che inizia con la crisi del blocco dell'Est, e che deriva dai modi in cui il comunismo è giunto al collasso. Dopo l'implosione dell'URSS, e fino all'undici settembre, le società civili ed economiche di tutto il mondo hanno infatti goduto di un clima euforico, in cui coloro che non facevano della guerra e della politica la loro attività principale hanno pensato di potersi godere il windfall of peace, i benefici del rilasciamento della tensione. E tale sentimento può essere capito, e il beneficio misurato facilmente, se si pensa al senso contrario di smarrimento che aveva attanagliato, ad esempio, gli ambienti Nato, postisi subito alla ricerca di un nuovo teatro di conflitto per non andare, come essi stessi dicevano “out of business”. La speranza suscitata dal superamento dei “blocchi” può essere cioè misurata dal timore per il futuro di ciascuno dei singoli “addetti ai lavori” della guerra fredda, moltiplicato per l'intera umanità.
Il quadro di questa che potremmo definire “l'ora della ricreazione” del post-comunismo ha subito, a partire dall'undici settembre, modifiche profonde, e non tornerà probabilmente mai più alla stessa coralità, alla stessa spontaneità, alla stessa “innocenza”. Anche se l'economista Paul Krugman ha tracciato - in un suo personale esercizio previsionale - un plausibile scenario secondo il quale tra pochi anni nessuno si ricorderà più delle Torri Gemelle, ma tutti subiranno ancora le conseguenze del caso Enron, è un fatto difficilmente contestabile che il corso degli avvenimenti è stato radicalmente mutato dalla reazione americana agli attacchi subiti sul proprio territorio nell'autunno del 2001. Tali attacchi hanno portato la Casa Bianca a proiettare la propria potenza e i propri interessi sul mondo intero, nell'intento di non lasciare nulla, negli eventi e nelle trasformazioni mondiali, né al caso né all'iniziativa di altri attori.



Il nuovo clima politico creatosi con il diffondersi della paura per il terrorismo condiziona negativamente infatti tutti e quattro questi tipi di flusso.
Per quel che riguarda i flussi informativi si ricorderanno in primo luogo le misure di oscuramento e di censura assunte per il timore che certi servizi giornalistici contenessero comunicazioni in codice per i terroristi, e via via tutte le altre iniziative e proposte in questo senso, sino alle ventilate misure di controllo sul prestito dei libri da parte delle biblioteche e di schedatura dei lettori sulla base degli interessi culturali. Ma, a parte questi casi che hanno dato visibilità al fenomeno, i flussi informativi sono stati soprattutto ridotti dallo sgonfiarsi della “bolla” che si era creata attorno alle cosiddette dot-coms, cioè alle aziende operanti nei “settori della convergenza” (telecomunicazione - elettronica - media). La “società dell'informazione” non va, naturalmente, considerata archiviata, perché le innovazioni introdotte da Internet non vengono meno, ma essa risulta sostanzialmente rallentata dagli aspetti di caduta della privacy e di possibilità di controllo inerenti alla stessa tecnologia e che si svilupperanno nei prossimi anni ad un ritmo e con un'ampiezza verosimilmente assai maggiore di quella della “rivoluzione dell'informazione”, le cui prospettive per una svolta epocale vanno quanto meno riviste e rinviate ad un orizzonte temporale più lontano.
Anche se in maniera diversa, anche i flussi di investimento attraverso le frontiere hanno subito - e continueranno a subire per tutto il breve periodo del “futuro prevedibile” in campo finanziario - le conseguenze della fine di quella che abbiamo chiamato la “età dell'innocenza” coincidente con la globalizzazione. Non solo la caccia ai depositi bancari e ai finanziatori del terrorismo ha un po' spaventato gli investitori internazionali, spingendo - ad esempio - i capitali dei paesi arabi ed islamici ad abbandonare i piazzamenti americani, ma soprattutto si è rotto all'interno stesso del mondo occidentale il clima di fiducia tra investitori ed intermediari finanziari. Già la crisi delle “tigri asiatiche”, nel 1997-1998, aveva dimostrato la minaccia che la globalizzazione finanziaria (con le connesse instabilità) faceva pesare sull'insieme del fenomeno della globalizzazione. In particolare la crisi dell'Indonesia, che era entrata nel circuito mondiale dei liberi flussi finanziari senza che la struttura produttiva del paese risultasse solidamente integrata nel sistema mondiale, aveva fatto singolare contrasto con la solidità della Cina, la cui tenuta - in assenza di convertibilità della moneta e in un clima di prudenza nei confronti della globalizzazione finanziaria - aveva di fatto posto termine alla serie di crisi a catena in Asia, dimostrando che il fenomeno determinante della globalizzazione restava l'integrazione produttiva. Della crisi e del rallentamento dei flussi finanziari hanno per altro approfittato le istituzioni statuali di alcuni importanti paesi per segnare alcuni non trascurabili punti nei confronti dei soggetti economici internazionali, scatenando una lotta contro i paradisi fiscali. Si è verificato così un vero capovolgimento. Da un lato si è avuto un riequilibrio tra Stati e imprese a favore dei primi, andando contro una delle principali caratteristiche della globalizzazione, mentre la costituzione di un organismo di azione finanziaria internazionale dai poteri sempre crescenti poneva un potente freno alla capacità delle diverse nazioni di concorrere tra loro per attrarre investimenti esteri, con uno sviluppo che era veramente l'ultimo che ci si sarebbe attesi dopo la fine del comunismo e dello statalismo in economia.
Per quanto riguarda i flussi di merci, è facile constatare che le instabilità e il declino della globalizzazione finanziaria hanno finito per consolidare la divisione internazionale del lavoro, quale essa si è configurata da quando le politiche di industrializzazione export led di quattro paesi (o meglio spezzoni di paese: Taiwan, Hong Kong e Singapore, piccoli frammenti della immensa Cina, e la Corea del Sud, a sua volta frammento di un paese diviso) erano diventate il modello applicato per uscire dal sottosviluppo da gran parte dei paesi dell'Asia orientale più qualche timida imitazione latino-americana, mentre da questa parziale “globalizzazione produttiva” restavano interamente escluse l'Africa e il mondo islamico. In altri termini, il fenomeno dell'inclusione del Terzo Mondo nel sistema mondiale del lavoro industriale era rimasto limitato alla sola regione sino-mongolica, cioè ad un quadro non globale, ma sub-globale. Di conseguenza, i nuovi flussi mondiali di merci hanno mostrato una tendenza a cristallizzarsi solo sugli assi tra Asia orientale e Costa occidentale degli Stati Uniti e in minor misura tra Asia orientale ed Europa. Questi due assi, aggiunti al tradizionale asse commerciale nord Atlantico, finivano per mostrare un sistema commerciale mondiale ridotto a una sola parte del Pianeta - relativamente piccola - senza nessuna vera tendenza a diventare globale. A ciò si aggiunge che, contrariamente a tutte le dichiarazioni di principio, il governo della principale potenza economica del mondo ha mostrato tendenze chiaramente autarchiche, aggiungendo nuove sovvenzioni alla propria agricoltura protetta e imponendo dazi doganali assai alti sull'acciaio. Sul piano operativo, poi, il commercio mondiale non può che essere influenzato che in senso antiglobale, dopo l'undici settembre, dal progetto americano di controllare eventuali infiltrazioni terroristiche negli Stati Uniti riducendo a una decina i porti di imbarco per le merci dirette negli Stati Uniti. Da una assai incompleta globalizzazione si è così passati a uno scenario per i prossimi decenni che evoca addirittura le vie commerciali monopolizzate del Medioevo.
Per quel che riguarda infine i flussi migratori da un paese all'altro e da un continente all'altro, essi - come già abbiamo detto - sono sempre stati quelli che hanno incontrato le maggiori resistenze, e che anche nel periodo post-comunista sono rimasti larghissimamente inferiori ai trasferimenti di popolazione verificatisi nel XIX secolo e nei primissimi anni del XX. Qualsiasi scenario in questo campo, che esso si riferisca all'Europa o agli Stati Uniti (cioè a quelli che sono stati paesi di destinazione di tali flussi) deve tener conto di sviluppi politici interni che fanno intravedere una netta chiusura ed un clima di paura e di sospetto verso la diversità. Ciò fa apparire il capitolo demografico-culturale come quello più chiaramente significativo della fine della globalizzazione e della multiculturalità che essa sembrava promettere per la maggior parte delle società del mondo.



È possibile insomma sostenere - alla luce dei fatti e dell'evoluzione dei flussi sopra descritti - che la globalizzazione è già terminata, e che ogni esercizio previsionale all'orizzonte di 8-13 anni deve prendere in considerazione, come tendenze prevalenti e determinanti, non più - o non solo - i flussi spontanei divenuti così impetuosi a partire dalla metà degli anni ottanta, quando si manifestarono i primi vacillamenti del sistema sovietico, ma soprattutto quello che potremmo definire e chiamare il globalismo unilaterale americano. Questa azione unilaterale non avviene però in un mondo privo di altri soggetti collettivi con capacità autonome di reazione e di iniziativa. Vanno perciò anche tenuti presenti i conseguenti tentativi da parte degli altri attori mondiali di dar vita a una sorta di globalismo multilaterale.
Nel comportamento dell'attore internazionale destinato a restare comunque determinante nel futuro prevedibile - gli Stati Uniti -, ad un atteggiamento di principio nel complesso favorevole al proseguimento della globalizzazione (apertura dei mercati, deregolamentazione, riconoscimento del primato delle imprese sui poteri statuali) fa riscontro una prassi non sempre coerente. Per il prossimo decennio, perciò, è prevedibile il passaggio da un ordine mondiale tendenzialmente determinato dall'adesione spontanea di tutti o quasi gli attori ad un insieme di regole, o semplicemente di prassi, ad un sistema obbligato a gravitare verso la potenza egemone, anche per una evidente tendenza di tutti i poteri consolidati ad emarginare e a trattare con sospetto come pericolosi, non solo i propri nemici, ma anche ogni forza non politically correct.
Un “ordine” a decisioni altamente decentrate quale è stato quello dell'era della globalizzazione, sarà probabilmente sostituito da un “sistema” gerarchizzato, anche se organizzato a “geometria variabile” attorno alla potenza centrale. Al momento, tale sistema non ha ancora assunto rigidità. Non è cioè ancora chiaro - ad esempio - se la Russia sarà una potenza marginale del sistema americanocentrico oppure un elemento “revisionista” - e quindi parzialmente antagonista - che rivendicherà parte degli spazi e margini di influenza precipitosamente ceduti nel decennio successivo al disfacimento dell'URSS, e in tutto il periodo post-comunista. Sull'arco del futuro prevedibile, è comunque probabile che gli elementi di autonomia e di rivalità si accentueranno, in Russia, rispetto a quelli di subordinazione sistemica agli USA.
Analogamente, pur non essendo chiara - probabilmente non è stata ancora neanche decisa a Pechino - la linea della Cina, è possibile tracciare un quadro delle tendenze alla scadenza temporale del prossimo decennio. Quel che è chiaro è che l'economia cinese avrebbe bisogno di un minimo di altri dieci anni (e forse più) di sviluppo comparabile a quello successivo al 1978 per potersi permettere un comportamento da potenza in grado di limitare la preponderanza degli Stati Uniti. Ciò è vero - naturalmente - solo a condizione che non si presentino forti elementi di discontinuità in un senso o in un altro, ad esempio, una crisi del modello economico americano, oppure un breakthrough scientifico-tecnico che ne consolidi la supremazia in maniera non capovolgibile per un lunghissimo periodo. In tal caso, i tempi di una forte “autonomizzazione” politico-militare della Cina rispetto agli USA, oggi predibile all'orizzonte temporale del 2012-15, potrebbero invece essere accelerati da un esaurimento dei mercati di esportazione dei prodotti cinesi e da una conseguente riconversione del sistema produttivo della Cina verso i consumi da potenza (cioè verso l'infrastrutturazione militare del Paese).
L'emergere degli USA come potenza egemone del nuovo ordine mondiale è stata facilitata, nell'ultimo decennio, dal fatto che l'America godeva di una leadership riconosciuta da tutto l'Occidente in funzione anticomunista e dalla Cina in funzione antisovietica. A ciò si è aggiunto il bisogno dell'ex superpotenza rivale di essere "recuperata", dopo la rinuncia alla funzione imperiale e i successivi dissolvimento dell'URSS e saccheggio della Russia condotto dall'esterno. Tutto ciò ha consentito agli Stati Uniti di utilizzare le strutture di comando concepite nel quadro della riconosciuta funzione di leadership del passato, nel periodo dell'equilibrio tra blocchi, per tentare di imporre un dominio globale che non si giustifica più nei rapporti di forza economica tra i vari Paesi (e gruppi di Paesi) del mondo. Nel giro di 8-13 anni è prevedibile quindi una profonda ristrutturazione degli organismi e delle alleanze nella logica del nuovo equilibrio mondiale.
La riorganizzazione delle alleanze in maniera ancor più radicale di quella che ha portato alla creazione del Consiglio Russia-Nato è un evento che caratterizzerà il quadro del prossimo decennio, naturalmente in maniera consona ai rapporti di forza, militari ed economici, tra i vari soggetti del sistema mondiale. E questi rapporti di forza sono caratterizzati dal fatto che la fine della Guerra Fredda ha coinciso con un rilasciamento dello sforzo militare di tutti i Paesi tranne l'America. Ciò, nel breve termine, ha dato agli Stati Uniti una superiorità militare prima mai conosciuta. E in prospettiva, è possibile che questa superiorità sia destinata ad accentuarsi, in quanto in America tutta la ricerca tecnologica, e persino scientifica, è finanziata e orientata a fini militari, mentre nel resto del mondo ha altre priorità. In particolare in Giappone è orientata alla comprensione dei fenomeni climatici. Per questi fenomeni invece l'America, almeno nei primi mesi dell'amministrazione Bush, ha dimostrato scarsa sensibilità.
Un elemento di forte incertezza sullo scenario della realtà internazionale, all'orizzonte 2010-2015, è se sia o meno possibile estrapolare questa situazione attuale ed ipotizzare che la divergenza tra l'impegno militare degli Stati Uniti e degli altri Paesi duri ancora in futuro. In questo arco temporale appare in realtà improbabile che gli Americani saranno disposti a pagare per uno sforzo in campo militare analogo, se non maggiore, a quello del periodo della guerra fredda, mentre verosimilmente il resto del mondo sarà impegnato in obiettivi più orientati al benessere.
Tutto lascia pensare che ciò non avvenga, perché - al di là delle tensioni nel terrorismo - la realtà dei fatti è che non esiste una potenza rivale dell'America in grado di minacciare la sicurezza del Paese e di giustificare agli occhi del contribuente americano un tale sacrificio per molti anni. La teoria dello "scontro delle civiltà" che era destinata proprio a "inventare il nemico" per tenere mobilitata l'America e, possibilmente, il resto dell'occidente dietro di essa, è infatti troppo fragile. Non solo non si è realizzata l'alleanza islamico-confuciana (sicché il mondo islamico - anche quando fosse convertito in un nemico totale - non può da solo costituire una minaccia credibile), ma la stessa America rischia addirittura di conoscere un'altra fase di assenza di focus esterno come quella descritta dallo stesso Huntington alla fine del '97.
Uno scenario non impossibile è infatti quello in cui - come reazione ad un accentuato protagonismo americano - una crescente chiusura dell'Europa su se stessa coincida con un riemergere della Russia come potenza regionale nel quadro di un ordine mondiale gerarchico con al vertice gli Stati Uniti. La Russia è infatti uno degli esportatori di petrolio su cui gli Stati Uniti puntano nella loro strategia di ridurre il peso dei Paesi Opec nella politica mondiale.
L'accettazione di tale posizione di leadership ha cominciato però a erodersi rapidamente, non molto dopo l'undici settembre, sicché è verosimile che all'ordine globale unilateralista a dominante americana venga rapidamente contrapposta la visione di un ordine globale multilaterale. Con tutti i limiti del trattato sul Tribunale Penale Internazionale, il contrasto su questo argomento tra Europa e Stati Uniti ne costituisce già un primo segno, ma altri e forse più importanti possono essere relativi al campo economico come ad esempio i contrasti in sede Gatt dalle cui disposizioni Washington pensa di essere sciolta unilateralmente. Anche la crisi del dollaro è in questo senso significativa. In passato, soprattutto nel decennio post-comunista, il deficit costante della bilancia commerciale americana era accettato dagli altri Paesi che accumulavano nelle loro casse - e nelle tasche dei loro cittadini - pezzi di carta verde forniti dagli americani in cambio di beni reali. Che lo scambio fosse ineguale era solo apparente, l'America infatti esportava un bene chiamato "fiducia". Ed era per questo che il resto del mondo accettava lo squilibrio commerciale. Al momento attuale ciò non è più vero, come conseguenza dell'evoluzione interna agli Stati Uniti. Ed un forte attivismo unilaterale americano potrebbe aggravare la situazione interna.
Per quanto riguarda tale attivismo politico-militare, nel periodo medio-breve è probabile un uso intensivo di strumenti militari in guerre contro "Stati canaglia", scelti secondo i criteri più vari, e in "Stati falliti" in cui possono trovare terreno fertile movimenti a-statuali e globalizzanti di opposizione all'ordine unilaterale post-globalizzazione. Ma in un periodo più lungo, le prospettive della potenza militare appaiono meno ottimistiche.
Ogni previsione oggi possibile del sistema internazionale, mostra che - indipendentemente dall'uso sistematico della forza da parte della potenza egemone del sistema e dei suoi alleati, più o meno occasionali - la divaricazione nelle condizioni sociali ed economiche dei popoli andranno accentuandosi. Di conseguenza andrà crescendo per frequenza e intensità il fenomeno del fallimento degli Stati, obbligando la potenza centrale del sistema ad interventi sempre più frequenti. Oltre questo scenario, che potrebbe comunque esaurirsi anche prima dell'orizzonte decennale, ogni previsione deve tener conto delle due ipotesi alternative della “non tenuta” socio-politica del “centro” del sistema, oppure di una svolta scientifico-tecnologica tale da cambiare completamente la natura delle società, con conseguenze imprevedibili nel sistema internazionale.



Uno scenario a 8-13 anni della collocazione e del ruolo dell'Europa nel sistema internazionale deve tener conto dell'ambiguità del processo di unificazione europeo rispetto a quello che va sotto il nome di globalizzazione, che - va ricordato - è intervenuto in un momento successivo a quello in cui furono avviati i Trattati di Roma, ed in un clima politico generale radicalmente diverso.
Nel periodo post-comunista, l'Europa poteva essere considerata come un building block se non della globalizzazione (che allora non esisteva, o almeno non veniva percepita come tale) di una liberalizzazione a livello mondiale, nel senso che l'abbattimento delle frontiere tra i propri membri - e poi il rapido allargamento a molti altri Stati - veniva visto più come il risultato di un programma di eliminazione degli ostacoli agli scambi tra europei, che dell'idea di costruire un nuovo potente soggetto politico sopranazionale. Nello scorso decennio, con la conversione di massa del conformismo prevalente al liberoscambismo, era stato quasi dimenticato che originariamente il processo di integrazione dell'economia del Vecchio Continente aveva come finalità anche quella di garantire alcune autosufficienze collettive - in campo alimentare ed energetico ad esempio -, aveva cioè carattere assai diverso da quello che avrà in seguito alla globalizzazione, i cui flussi tendevano a creare una interdipendenza generalizzata a livello mondiale. All'orizzonte del prossimo decennio, però, successivamente alla fine della globalizzazione spontanea, è prevedibile un riemergere delle vocazioni all'autosufficienza e alla chiusura semi-autarchica (a livello continentale, e non più nazionale, naturalmente), sicché l'Europa potrebbe progressivamente configurarsi come un vero e proprio stumbling block sulla strada di un mondo globale.
Questo scenario non appare immediatamente evidente agli osservatori italiani, in quanto l'Italia, a differenza di Francia e Germania, ha vissuto l'avventura europea essenzialmente in funzione anti-provinciale ed anti-autarchica. Ha cioè sempre visto l'Europa come un building block di un mondo aperto agli scambi, ai flussi innovativi, alla diffusione di nuove idee.
Ciò non significa però che - a dieci o quindici anni da oggi - sia certo che l'Europa si presenterà come una entità isolata e chiusa in se stessa. Ciò è in primo luogo reso improbabile dai problemi di approvvigionamento energetico, che avranno un ruolo fondamentale nella politica estera di tutto il prossimo decennio. Ed in secondo luogo c'è da tenere presente che, nello scenario determinato dall'unilateralismo globale degli Stati Uniti, anche un'Europa costruita sulla base del vecchio principio dell'autosufficienza dovrà prendere atto delle nuove circostanze e delle nuove condizioni geo-strategiche determinate dal ruolo “imperiale” degli USA.
È evidente, infatti, che sta prendendo corpo un progetto tendente a sostituire un pericolo “verde” al vecchio pericolo “rosso” presentando agli Occidentali l'intero Islam come complice obiettivo di Al Qaeda. E per di più trasformando questa solo parziale verità in una realtà indiscutibile, attraverso comportamenti che tendono a gettare effettivamente l'intero Islam su quella posizione estrema.
Il quadro geo-strategico che rischia di risultare da tale condotta è caratterizzato soprattutto dal progetto di una guerra per trasformare politicamente l'Iraq più o meno com'è stato trasformato l'Afghanistan, con la sostituzione di Saddam con un equivalente di Karzai. Ciò implica anche una profonda trasformazione del ruolo della Giordania, che si trova nella scomoda posizione di confinare con Israele da un lato e con l'Iraq dall'altro. Ed implica poi, una democratizzazione “violenta” dell'Iraq le cui risorse petrolifere diventerebbero a questo punto sfruttabili intensivamente e liberamente esportabili, determinando una forte riduzione del ruolo dell'Arabia Saudita nel mercato petrolifero.
Se si tiene conto dei difficili rapporti che nonostante un qualche recente miglioramento permangono tra Libia e Stati Uniti è facile capire come il Mediterraneo finirebbe per diventare più il fronte di uno scontro di civiltà alla Huntington, ed anche di infiltrazioni terroristiche e di puro e semplice contenimento dei rifugiati, che una possibile area di cooperazione tra le due sponde. L'alternativa tante volte ventilata tra collaborazione euro-mediterranea e collaborazione tra le due Europe, dell'Est e dell'Ovest, risulterebbe seriamente condizionata da una ovvia preferibilità della seconda.
L'accessione di nuovi membri alla Comunità - da completare, almeno secondo gli impegni ufficiali, ben prima dell'orizzonte temporale preso in considerazione in questa sede - mostra peraltro già un chiaro indirizzo in tal senso, nonostante tutte le perplessità della Francia di fronte all'ipotesi della nascita di una sorta di Commonwealth germanico in Europa centrale e orientale. L'espansione del Mediterraneo del Nord, il mar Baltico, risulterebbe cioè preferibile e immediatamente attuabile. In che misura questa sorta di Lega Anseatica possa estendersi verso oriente e in che misura avrà una struttura aperta, sarà cioè un building block di un mondo in cui possano continuare a dispiegarsi i flussi caratteristici della globalizzazione, sarà determinato dall'evoluzione della Russia e soprattutto dal suo rapporto bilaterale con gli Stati Uniti.



Nel secondo decennio del XXI secolo il quadro globale dovrebbe dunque essere caratterizzato - a meno di sconvolgimenti traumatici determinati da una crisi ambientale generalizzata o dal collasso del sistema economico e sociale dell'Occidente - da un ordine mondiale gravitante sul nord America, che potrebbe risultare grandemente rafforzato da una nuova ondata di innovazioni tecnologiche, e contrapposto a forze e movimenti principalmente a carattere a-statuale tendenti a contestare e a rivedere profondamente non solo l'ordine mondiale ma gli stessi principi di base su cui esso è fondato. A seconda delle scelte politiche più o meno unilateraliste che saranno attuate nell'immediato futuro dall'autorità politica americana altri due centri minori di potere, la Russia e la Cina, potranno alternativamente essere schierate a difesa dello status quo globale politico ed economico pur restando sostanzialmente diverse per quel che riguarda i principi fondamentali della società (democrazia, diritti umani) dalla cultura dell'Occidente. In alternativa, queste due potenze minori potranno assumere un ruolo “revisionista” dell'ordine mondiale in qualche modo dando vita a un equilibrio instabile con soggetti multipli e di natura diversa. La vera incognita in uno scenario al 2010-2015 resta l'Europa, che potrebbe, procedendo in ordine sparso, autocondannarsi alla totale irrilevanza o diventare addirittura un elemento grave di instabilità del sistema mondiale, oppure - in un quadro di unità - essere uno degli elementi di stabilità di un ordine mondiale caratterizzato da elementi di multipolarità.



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